Rivoluzione d'Ottobre: Lenin pianificò l'assurdo

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  1. <Petrosyan>
     
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    Laura SATTA BOSCHIAN
    E Lenin pianificò l'assurdo

    Utopia e violenza: una miscela contraddittoria ancora non sanata
    Esce in questi giorni il volume «Vita di Lenin» di Laura Satta Boschian (edizioni Studium, pagine 248, lire 20.000). Pubblichiamo le pagine finali del volume dedicate alle contraddizioni del personaggio cui si deve l'edificazione del comunismo.


    Dopo aver cercato di ricostruire vita e morte di Lenin, di spiegare il perché del suo culto, non è possibile non chiedersi qualche cosa di più. Anche alla luce degli ultimi avvenimenti che stanno cambiando la faccia del mondo, si vorrebbe capire meglio Lenin stesso e il leninismo e l'importanza della sua utopia, per la quale aveva bruciato la sua vita anzi tempo. Ma non è facile capire questo gigante della rivoluzione, questo ometto senza caratteristiche apparenti, che non ha mai fatto risparmio di sé, che per sé non ha voluto mai nulla, sicuro di aver lui e lui solo la ricetta per eliminare le ingiustizie del mondo, pago, nella sua diuturna fatica, di applicare la sua ricetta almeno alla Russia, se il resto del mondo si sottraeva alla cura. Non è facile capire anzitutto perche Lenin non capiva nulla degli uomini, anche se vedeva solo le masse. Ma le masse, e non se n'era accorto, sono fatte dagli uomini. Ed essi sono diversi gli uni dagli altri, anche se in generale rivelano tendenze analoghe: non sono portati alla vita eroica, ma desiderano stare tranquilli; non sono portati al collettivo, ma piuttosto a una propria area invalicabile, materiale e spirituale, anche minima; non sono accesi dall'odio di classe come unico e perpetuo motore di sentimenti; non sono disposti all'applauso e all'esecrazione, ordinati dall'alto. Lenin non capiva neppure che la morale è una soltanto, che non esiste la morale socialista per la quale il fine giustifica i mezzi, e le rapine, i furti, il plagio, le menzogne rientrano nel lecito. Non capiva le disastrose conseguenze del terrore e non solo per lo spasimo quotidiano dei perseguitati e condannati anche se innocenti (sapeva che c'erano gli innocenti e non gliene importava nulla), ma anche per l'incidenza psicologica di quelle nefandezze su chi le commetteva e su chi, a parte le vittime, ne aveva notizia.

    Si veniva così formando un nuovo tipo di uomo, il celebre homo sovieticus riconosciuto subito dal filosofo Berdjaev, tutto diverso dall'«uomo nuovo» -lavoratore d'assalto, compagno sorridente, rivolto fiducioso all'avvenire- che il socialismo doveva produrre. L'homo sovieticus era cupo, amorale, servo, pronto a soffrire privazioni e miserie, lodando sempre l'autorità che gliele infliggeva, ma pronto anche a rifarsi su chi considerava suo sottoposto. Era sospettoso, pauroso, spesso delatore, condizionato dal collettivo a cui ormai suo malgrado doveva appartenere, perché non poteva più essere solo, ma solo invece e spoglio di ogni slancio nell'intimo.


    Se a questo era ridotto l'homo sovieticus, Lenin, che in parte se ne rendeva conto, avrebbe dovuto capire quanto la realtà fosse diversa dai suoi iniziali progetti e come nessuno di essi fosse stato ancora portato a compimento. Avrebbe dovuto perciò essergli chiaro, nella sua lunga premorte, che il rovello per le correzioni dell'apparato era inutile, perché l'apparato e i compagni e le prevaricazioni e lo stesso homo sovieticus dipendevano dal divario tra l'astrattezza della sua utopia e la concretezza invincibile della realtà.

    Ma Lenin era un genio russo e questo divario era il lievito della sua azione. Si può dire persino che questo divario è il lievito di molti russi di rilievo. Essi infatti rifiutano sempre il mondo come è, lo vedono lucidamente nelle sue imperfezioni e vogliono renderlo perfetto. Alcuni esprimono il loro anelito, che rimane tale, in grandi opere d'arte, in filosofie originali, altri si lanciano in avventure rivoluzionarie purificatrici. Per tutti il fanatismo è d'obbligo. Senza di esso la realtà prevarrebbe e il sogno, con la tensione con la creatività, verrebbe meno. Anche Lenin, a cui, si è visto, la realtà certo non sfuggiva, aveva operato prodigi col suo fanatismo. Aveva raccolto un paese sfatto, senza energie spirituali, l'aveva districato dalla guerra mondiale e dalla guerra civile, gli aveva dato una missione tanto vasta, che al suo confronto quella dei fratelli slavi, esaltata dagli zar, sembrava ridicola. Ma non poteva rendersi conto di aver pianificato l'assurdo, di aver vantato l'avvento di una nuova giustizia basata sull'odio e il terrore, di non aver raggiunto nessuna meta annunciata, di non aver mantenuto nessuna promessa. Avrebbe rinnegato se stesso. E non era proprio il caso. La sua utopia avrebbe resistito per anni, «armata» com'era del pensiero marxista. Ora l'ebreo Marx. che, forse partendo da un sottofondo ebraico e scritturale, voleva trasformare le turbe evangeliche dei poveri e degli sfruttati rimasti tali per quasi due millenni, malgrado la venuta di Cristo, in masse organizzate capaci di rivendicare i propri diritti, proponeva un vangelo più facile, mantenendo intatte le pretese universali. E l'universo era sufficiente anche per Lenin, che riconosceva il proprio impegno e il proprio ideale nel grido di battaglia «proletari di tutto il mondo unitevi», formulato da Marx.

    Piaceva ai comunisti sparsi per il mondo sapere di una sede specifica del comunismo, di un centro dottrinario dove incontrarsi confrontarsi e apprendere. E poiché questo centro era lontano, dato che il mondo era ancora vasto, piaceva anche immaginarne la perfezione, deprecando e odiando e insidiando le imperfezioni dei paesi capitalisti. Tutto sommato l'orgoglio russo di porsi come guida al comunismo mondiale con proprie finalità giovava alla causa del comunismo stesso. Mosca era un santuario. Tutto quanto proveniva da Mosca e dall'Urss era esemplare. Non contavano i milioni di russi emigrati, né le testimonianze di persecuzioni viste o patite. Chi era comunista sfuggiva gli emigrati, non credeva alle testimonianze.

    Oggi, dopo cinque anni di perestroika, avviene che l'intelligencja più comunisteggiante preferisca non ricordare l'adesione di altri tempi, a volte negarla; che la flessione dei voti al Pci sia costante, che le iscrizioni al partito stiano diminuendo, che i dirigenti, in grave disaccordo tra loro, cerchino di salvarlo, di mantenerne il messaggio, spogliandolo di tabù superati, di allestire una «cosa», come dicono, per ora molto confusa, e che del comunismo venga cambiato anche il nome.


    Allora ci si chiede come mai l'infatuazione per un'utopia, che i fatti regolarmente smentivano, e oggi smentita, abbia potuto durare per ben settant'anni, anche negli onesti, nei puri. Risposta difficile. Si possono formulare solo delle ipotesi e la più attendibile potrebbe consistere in quel «bisogno di comunismo», non meglio identificato. Che forse si identifica con il bisogno di un po' di giustizia sociale, senza proiezioni metafisiche, ma qui e ora, senza impegni morali troppo gravosi, ma con leggi esterne da rispettare, senza dure rinunce autonome e personali, ma con una più ragionevole distribuzione di ricchezza. In un secolo come questo ventesimo, che, con le sue scoperte scientifiche e le sue applicazioni tecnologiche, ha cambiato la vita degli uomini, l'ha resa febbrile dinamica rumorosa, che ha cambiato gli uomini stessi, li ha fatti più sicuri, più padroni del creato non più misterioso e inviolabile, ma da dissuggellare con prometeica superbia, non c'è tempo per rispondere alle domande ultime, per contemplare, tacere, attardarsi in esami di coscienza e in attese senza scopo apparente. Tutto va risolto e subito. Una dottrina che descrive una società senza classi, che è già stata applicata a milioni di uomini, non é più un'utopia, è una soluzione pronta per chi avverte il disagio di troppo benessere o per chi, al contrario, un sufficiente benessere non ha ancora raggiunto. Ed è una soluzione economica, che lascia indisturbate le coscienze, senza voti di povertà e castità, come solevano ripetere soddisfatti i salonkommunisten. Nel consumismo importante, nel materialismo quasi infantile (tutto, subito, pena una nevrosi), diffuso nei paesi capitalisti, si preferisce non lasciarsi aggredire dal Vangelo con sacrifici impossibili e promesse ultraterrene.

    Se così stanno le cose, e può darsi che così siano, si capisce molto bene la comodità spirituale procurata dal comunismo e la disposizione a farsi ingannare piuttosto che rinunciarvi. Ma si capisce anche l'applauso a Gorbacev, che nasce dalla speranza di liberarsi da certi compromessi forse inconfessati. Si capisce infine, ricordando la morte del fascismo e i milioni di antifascisti emersi alla sua morte, come possa diventare sgradevole essere stati seguaci di una fallita ideologia e come si preferisca dimenticare e far dimenticare l'abbaglio o l'errore o l'ingenuità.

    Ma quale risposta emerge per l'interrogativo posto all'inizio di questo ragionamento, ossia per l'importanza dell'utopia di Lenin? Anche qui si fa solo un tentativo di risposta, tra l'altro non tutto è ancora decantato nella tragica epopea russa di questo secolo. La risposta comunque sarebbe questa: che l'importanza di quella utopia sta soltanto nelle parole, negli stilemi, negli aforismi diffusi per il mondo, nelle oleografie di lavoratori felici, nell'essere stata configurata al momento opportuno; che due equivoci avrebbero consentito il perdurare di questa importanza.

    Il primo equivoco riguarda Lenin stesso. Prima russo che marxista, il suo internazionalismo ha assunto subito un carattere ecumenico con un pontefice (lui) che presiede e dirige il concilio dei prelati. Del resto l'impressione che il comunismo mondiale dovesse dipendere da Lenin e dalla Russia era stata recepita come lui voleva già al primo congresso della III Internazionale, dove fu subito chiaro a tutti che Lenin sarebbe stato sempre al comando. Il secondo equivoco è più generale. Dietro le allettanti parole e le stereotipe immagini hanno potuto prosperare senza disturbo le persecuzioni, il potere assoluto, un imperialismo sfacciato di marca slavofila e zarista, un regime che ha prodotto un bassissimo tenore di vita, fatta eccezione per gli uomini politici e gli alti gradi della nomenklatura, che ha confuso tutte le classi sociali in una massa di gente piena di paura, mentre la produzione andava diminuendo ogni anno, portando allo sfascio l'economia del paese. L'omertà di chi sapeva e taceva, vuoi per paura, vuoi per interesse o financo per tenace illusione, l'ovvio irritato disprezzo per ogni testimonianza contraria, l'impossibilità di imparziale verifica sul posto hanno consentito il perdurare per lunghi decenni del più grande inganno della storia.

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  2. <Petrosyan>
     
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    Stéphane COURTOIS
    Ottobre 1917, l'alba del terrore rosso



    Il fantasma agitato da Marx prese corpo in Russia novant'anni fa. Con la Rivoluzione d'ottobre (secondo il calendario tradizionale russo, novembre per il calendario corrente) il comunismo si materializzò ad opera dei bolscevichi di Lenin. Per settant'anni e passa il popolo russo sarebbe stato prigioniero di un incubo. E presto la rivoluzione avrebbe contagiato altri Paesi.
    Stéphane Courtois, docente a Parigi Nanterre e specialista della storia del comunismo, rilegge un evento destinato a cambiare i destini del mondo.

    Professore, il colpo di Stato di Lenin era inevitabile?
    Stéphane COURTOIS: «Nient'affatto. Da vero genio rivoluzionario, egli riuscì a sfruttare una situazione incontrollabile. Con incredibile demagogia promise tutto a tutti: la pace, la terra, le fabbriche agli operai... Una volta al potere, nel marzo 1918, firmò una pace con la Germania che faceva perdere alla Russia il cuore della sua potenza. Preparò militarmente la presa del potere. Però nel luglio 1917 Lenin poteva essere fermato dal governo provvisorio. Ma gli altri rivoluzionari, Kerenskij e i menscevichi, non credevano in un colpo di Stato e pensavano che l'Assemblea costituente avrebbe risolto i problemi. Lenin li colse di sorpresa. E il 18 gennaio 1918 disperse, manu militari, la prima e ultima assemblea eletta democraticamente in Russia fino al 1991».

    Si può considerare la Rivoluzione russa la matrice dei crimini commessi nel nome del comunismo?
    Stéphane COURTOIS: «È incontestabile, soprattutto da quando si dispone degli archivi segreti di Lenin. Nel quadro di una guerra civile voluta e organizzata da Lenin, i bolscevichi hanno istituzionalizzato i crimini di massa contro i civili e i relativi strumenti: la Ceka, modello di tutte le polizie politiche comuniste, e l'Armata rossa. Il modello di terrore messo in piedi in Russia tra il 1917 e il 1922 è stato poi applicato da tutti i partiti comunisti al potere, ma anche da numerosi gruppi comunisti armati, guerriglieri, eccetera».

    Qualcuno sostiene che sia necessario distinguere il comunismo di Lenin da quello di Stalin...
    Stéphane COURTOIS: «I nuovi archivi provano che c'è stata totale continuità tra Lenin e Stalin. È stato Lenin a nominare Stalin segretario generale del Partito bolscevico nel 1922 e l'ha anche citato nel suo testamento. Quando Lenin si è gravemente ammalato, alla fine del 1922, Stalin era il solo membro del Comitato centrale autorizzato a vederlo. A partire dal 1928, Stalin ha rilanciato la rivoluzione: piano quinquennale, collettivizzazione forzata dell'agricoltura, estensione dei Gulag, come aveva fatto Lenin tra 1917 e 1922. L'idea di una rottura tra Lenin e Stalin è un'invenzione di Trotzkij nella sua battaglia contro Stalin, e poi è stata ripresa da Kruscev per sdoganare il regime dai crimini del periodo staliniano e tentare così di ridargli una legittimità rivoluzionaria attraverso la figura di Lenin».


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