Top 5 dei migliori film del 2013

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    1°POSIZIONE





    Cani randagi si aggirano raminghi tra le macerie di case abusive semi sepolte da una vegetazione incontenibile. Una donna che lavora in un supermercato li raggiunge di notte munita di pila per donar loro le confezioni di cibo scaduto che altrimenti finirebbero al macero. Altri tre "cani randagi", per status civile più che per specie di appartenenza, sono un padre quarantenne e i due figli di sei e dieci anni che, abbandonati dalla moglie e madre,aggirano ai confini trasandati della metropoli vivendo di espedienti e, come i veri randagi, nutrendosi di campioni gratuiti di alimenti del medesimo supermercato, nonché di quei pochi spiccioli che il padre riesce a tirar su esponendosi agli incroci delle strade cittadine come uomo-sandwich con annunci di compravendite immobiliari, sfidando un vento gelido sferzante ed una pioggia gelida senza fine.
    Ogni sera i tre occupano un appartamento di fortuna differente, lavandosi nei cessi pubblici, orinando dove capita. La disperazione, la solitudine, la rassegnazione e l'incomunicabilità sono i temi sovrani e guida di una cinematografia che non ha eguali e che, nel bene e nel male, non può lasciare indifferenti.
    La discesa nel baratro della disperazione dell'attore feticcio Lee Kang-Sheng - quasi un Antoine Doinel dell'autore taiwanese, che lo ha visto crescere dai vent'anni ai giorni nostri in ogni sua opera con la medesima angoscia trattenuta e le sue ossessioni incontrollabili, i suoi dolori fisici e cerebrali - rappresenta la dissoluzione di una società dei vinti che abbandonano pian piano ogni stimolo ad andare avanti e si arrendono.
    Nel film enigmatico e talvolta complesso da decifrare si contano (forse) tre donne che percorrono l'esistenza del padre e dei suoi due figli: una madre nelle scene iniziali che veglia i due bambini dormienti e si pettina la folta chioma nera. La donna sola e parimenti disperata del supermercato, che, ossessionata dagli odori, si prende cura della bambina e la lava e nutre nei pomeriggi in cui ella vaga nel locale commerciale e inoltre salva di due ragazzi da una folle traversata in barca intrapresa dal padre in una notte di tempesta, sottraendoli all'uomo sempre più in crisi; infine una donna che appare senza spiegazioni, che si unisce ai tre nel giorno del suo compleanno, e va a vivere con loro in una casa disabitata dalle pareti nere come la pece, quasi fossero un negativo di una foto (e in un certo senso il negativo di una comune ed armoniosa vita di famiglia).
    In questa tetra abitazione entrambi gli adulti vengono attratti da una quadro che ricopre una parete di un intero muro, tra calcinacci e altre pareti disadorne: una stampa agreste che rappresenta una veduta di campagna in cui dopo un muretto a secco in primo piano, si apre a salire una vallata dolce coperta di vegetazione, oltre la quale una catena di montagne lontane non troppo aspre ne costituisce il limitare. Quella visione, forse in quanto paradisiaca, forse perché intesa come meta ideale di fatto irraggiungibile, paralizza i due protagonisti nell'ultimo (consueto, a dir la verità in molta parte dell'opera dell'autore) quarto d'ora totalmente contemplativo, in cui alle lacrime che sgorgano e trovano il tempo di asciugarsi, fa posto la meraviglia, l'angoscia e infine, forse, la rassegnazione.
    Non è per nulla semplice seguire un autore del genere; ma lo stile di Ming Liang è ipnotizzante e il risultato senz'altro unico e stupefacente. Per molti certamente il fatto che Stray Dogs possa essere l'ultimo film dell'autore taiwanese suonerà come un sollievo. Per me che considero Tsai Ming Liang uno degli autori cult in assoluto, significherà perdere uno dei cineasti più originali ed interessanti, non solo stilisticamente, dell'ultimo ventennio.


    2° POSIZIONE





    Prima la trama, poi il fondo è l’ultimo lavoro del regista Fulvio Wetzl, realizzato questa volta in tandem con Laura Bagnoli, delicata introspezione sulla vita e nell’arte di una pittrice di talento come Renata Pfeiffer.
    Io ho avuto l'occasione (ed il piacere) di visionare la pellicola il 9 luglio scorso all’Arena di Castello (la proiezione, organizzata dalla Mediateca di Firenze, ha preceduto quella di un corto sempre realizzato da Wetzl nel 2003 con interprete principale Carlo Monni in una serata dedicata al ricordo dell'attore scomparso di recente che ha riproposto anche il film "Prima la musica, poi le parole" che nonostante sia stato realizzato oltre 13 anni fa, ha circolato troppo poco e male, ed è stato di conseguenza visto molto meno di quanto invece avrebbe meritato).
    Le mie impressioni (tutte in positivo) su questo “immaginifico” viaggio nella Storia e nel tempo ripercorso in prima persona dalla stessa Pfeiffer, non possono che mettere in evidenza prima di ogni altra cosa, la sua duttile disponibilità, oltre alla straordinaria capacità che ha di “dialogare” con la cinepresa, nel mettersi praticamente a nudo e disvelare la profondità del suo straordinario mondo interiore attraverso il racconto del suo percorso non solo artistico (così ben evidenziato dalle sue “composizioni” evolutive sempre in movimento: il primo ritratto ad olio fatto proprio a sua figlia Laura di 5 anni nel 1958; la sua predilezione per gli smalti industriali poi abbandonati per le loro nocive tossicità che le hanno procurarono persino l’insorgere di un tumore fortunatamente debellato; le successive ricerche di nuovi materiali e forme; le personali idee sulla pittura che sulla scorta delle ricerche di Mondrian l’hanno portata ad avvicinarsi gradualmente a un livello sempre più raffinato di astrazione che non prescinde mai pero - come lei stessa dichiara nel film - dal dato figurativo, perché per lei “l’astratto non esiste”, che le consentiranno di raggiungere poi risultati cromatici particolarmente preziosi con i loro inusuali accostamenti e la visione traslata delle cose, influenzata non soltanto da Mondrian e Klee, a loro modo ugualmente anche se diversamente figurativi, ma anche da Picasso e Egon Schiele), ma anche umano e privato (le sue origini austriache; gli studi da ballerina classica della prima giovinezza infranti dalla guerra; il fondamentale capitolo dell’incontro con suo marito Enrico Bagnoli, uno dei grandi illustratori italiani famoso soprattutto per i non addetti ai lavori per aver disegnato per Bonelli alcuni dei più classici albi di Martin Mystere, recentemente scomparso; i sui rapporti con la madre, probabile modella nella Trieste di inizio secolo de “La donna in rosso” di Schiele; le preziosissime annotazioni sul clima culturale e politico degli anni ’30 e successivi a Milano).
    La trasparente semplicità priva di orpelli delle sue parole crea infatti un rapporto empatico di straordinario impatto emotivo che ben si trasmette allo spettatore che rimane ammaliato sia dallo splendore figurativo delle sue opere, che dalla discorsiva sincerità delle sue “confessioni” davanti alla macchina da presa.
    Ci troviamo insomma di fronte a una pellicola realizzata con estrema e meticolosa cura dei dettagli oltre che con un altrettanto importante e necessario trasporto "emozionale" (particolarmente originale per altro nell'impianto visivo per la maniera insolita delle “rappresentazioni” dei quadri che prendono vita sotto i nostri occhi espandendosi ben oltre i limiti ristretti della loro cornice grazie anche al magnifico lavoro “artigianale” fatto dagli autori su ogni singolo fotogramma per gli inserimenti aggiuntivi o le differenti angolazioni, ben lontano dalla freddezza teconologica della computer grafica spesso troppo perfetta da risultare priva di anima) che diventa poetico “documento” fatto non solo di immagini di rara bellezza, ma anche di musica e parole appropriate e pertinenti che mi hanno trasportato di peso in un’altra dimensione, direttamente in sella a quelle biciclette (riprese da uno dei suoi quadri più famosi) che si stagliano in primo piano fino a diventare autonomi elementi esplorativi sullo sfondo di colorati orizzonti fantasiosi e suggestivi, o mi hanno fatto librare (anche emotivamente) in alto, a sovrastare quei tramonti aranciati e rossastri fluttuando nei cieli di un azzurro talmente intenso e smagliante da diventare abbacinante, carezzato e sospinto dal vento come quell’aquilone che volteggia planando e risalendo nel suo vagabondare nello spazio alla ricerca delle opere dell’artista per riproporcele e “rivelarcele” come attraverso lo sguardo curioso e innocente di un bambino (così vicino a quello della pittrice, perchè è così che si percepisce il suo modo di scrutare la vita e l’orizzonte del domani anche alla veneranda età di 83 anni per la sua indomita voglia di nuove esperienze mai fossilizzate nella “maniera” che la porta a ricercare sempre inedite forme di rappresentazione che ci invitano ad immergerci in arcani baratri marini zeppi di impalpabili presenze o di creature all’apparenza mostruose, affascinanti come quelle di Bosch ma meno minacciose).
    Sono così riuscito anche io (che di pittura forse ne so molto meno di quanto sarebbe invece necessario conoscere) ad entrare (ed apprezzare grazie al risultato altamente impattante di un percorso in crescendo sempre in "movimento" anche creativo) nel profondo della sua ispirazione più genuina (analoga come intensità e risultato a quella degli autori della pellicola) che trasforma in una dimensione di “magicità astratta” tattilmente poetica la piatta realtà della fonte di partenza che si trasfigura in sorprendente “immaginario creativo" dove anche un portone può diventare un ineguagliabile “oggetto” di espressione artistica (percepibile in tale maniera proprio attraverso le “invenzioni” di regia che ci fanno "godere" le sue opere non solo attraverso gli occhi, ma calandoci interamente dentro con l’udito – la straordinaria colonna sonora molto appropriata e corrispondente – oltre che con l’olfatto e il tatto – e non è assolutamente un paradosso perché sembra di coglierne gli odori e le fragranze e di riuscire a “toccarle” e a starci dentro, tanto sono palpitanti e vive).
    Per me insomma un vero e proprio cinema a soggetto questo ritratto a tutto tondo di un’artista e di una donna – per il quale la definizione di “documentario” è decisamente riduttiva proprio per le eccezionali “qualità” comunicative di Renata Pfeiffer, e non solo dunque per la particolarità dell’impatto semplicemente visivo con il mondo “fatato” della pittrice così ben (ri)disegnato sullo schermo.
    Devo ritornare però spendendo qualche parola in più, anche sull’altrettanto fondamentale contributo del “tappeto musicale” di altrettanta pregnanza creativa (vero e proprio contrappunto sonoro in stretto connubio audiovisivo, opera di Lorenzo Farolfi – in arte Lorenz), anch’esso costantemente cangiante via che la pittrice prendeva ed esplorava nuove strade ben documentate dal racconto e dalle immagini, fino a contaminarsi (nella parte conclusiva) con le sonorità più marcate e “ruggenti” del jazz e del rock utilizzate per enfatizzare la più grezza brutalità dei materiali che compongono la “costruzione” delle ultime opere della Pfeiffer (lastre di alluminio battute con la mazza, tralci di ottone e bulloni , pellicole radiografiche riciclate e riportate a nuova e differente vita con la fatica del martello e l’invenzione dell’ingegnosità estrosa). Una metodologia compositiva quella del Farolfi, che richiama alla memoria (come ispirazione e simbiosi) il ricordo - ovviamente aggiornato al presente - di alcune esperienze mutuate dalla grande stagione del cinema russo, dove appunto la musica non poteva né doveva prescindere dall’immagine, e il lavoro fra compositore e regista veniva realizzato sulla base di un comune disegno condiviso diventando di conseguenza un tutt’uno senza soluzione di continuità.

    83 anni dunque quelli che si porta sulle spalle Renata Pfeiffer, ma non li dimostra proprio, non soltanto perché sotto gli inevitabili segni della vita che l’anno scalfita solo marginalmente, mantiene quasi intatta la sua antica, fiera e inalterata aristocratica bellezza, resa solo più “calma” e pacata dalla maturità, ma anche perché – come ho già detto in apertura - si conferma ancora e sempre curiosa e disponibile ad osare come se avesse vent’anni (il suo sguardo è ugualmente limpido e cristallino) e questo suo particolare “stato di grazia” che l’ha portata ad intraprendere proprio alla veneranda età degli ottant’anni (l’ultima fase della sua carriera che ha de miracoloso) un percorso faticosissimo e denso di risultati, ci fa dimenticare persino i suoi dati anagrafici. Orgogliosamente indomita e mai presuntuosa com’è ancora oggi, è capace di illuminare lo schermo con un semplice sguardo o un sorriso. Certamente consapevole di aver ormai davanti a sé poco tempo, e quindi di non volerne sprecare nemmeno un minuto, è sorprendentemente serena e tranquilla quando dichiara che in ogni caso anche se “dovesse finire così” (più che alla vita, lei si riferisce comunque alla possibilità residua di creare), considera questi ultimi due anni fra i più importanti e stimolanti della sua intera carriera artistica. Una vitalità indomita e contagiosa la sua a cui dovremmo tutti ispirarci, che conferma l’importanza di un sguardo rimasto innocente e propositivo, ancora e sempre aperto sul futuro alla scoperta di nuovi orizzonti (e non a caso – come in un virtuale passaggio del testimone - la pellicola si conclude con la piccola pronipote, figlia della figlia di sua figlia, che gattona sul pavimento della galleria che ha ospitato la sua ultima mostra antologica, e guarda con altrettanta “curiosa attenzione” la cinepresa che la riprende).


    3° POSIZIONE





    Avevo conosciuto Hirokazu Koreeda un paio di anni fa grazie allo stupendo “Still Walking”, struggente ritratto di una famiglia incapace di farsi una ragione della morte di uno dei figli, anni addietro. E se in quel film il fulcro era il figlio mancante, in “Like Father, Like Son” è giusto l'opposto, la scoperta cioè dell'esisitenza di un figlio che non c'era. In ogni caso restano sempre la famiglia e le sue dinamiche ad interessare evidentemente Koreeda. Il modo in cui la storia è raccontata è questa volta più tradizionale, più lineare, cosa che toglie forse qualcosa alla pellicola, ma la renderà certo appetibile a un pubblico più ampio. E non è detto che ciò sia un male.


    4° POSIZIONE





    Utilizzando i mezzi e i simboli del road movie, S.Knight ne ribalta completamente i contenuti. Lo spazio circoscritto dell’auto non rappresenta più la fuga dalla realtà, l’allontanamento dal quotidiano deludente, il desiderio ribelle e sognante verso ipotetiche frontiere attraversate da strisce d’asfalto su cui lasciare il segno del proprio passaggio. Dentro l’auto, e Cronenberg o Carax lo hanno indicato in tempi recenti, l’uomo vive realmente ciò che è, costruisce i presupposti di finzione con cui si misura all’esterno, si tratti di lavoro, di rapporti familiari, di amore. L’automobile è diventato il suo vero habitat, l’unico possibile, in termini di tempo, di elaborazione dei pensieri, di organizzazione delle relazioni. Non è il mezzo con cui perseguire il suo sogno ingenuo di evasione o di antagonismo romantico contro il sistema. E’ la sua corazza di difesa dall’esterno, è il guscio dell’anima messa a nudo. Ivan Locke è naturalmente in macchina, unica inquadratura di tutto il film, quando riceve una telefonata che rimetterà in discussione tutta la sua vita. Attraverso telefonate varie(con collegamento bluetooth, e sponsor Bmw che ringrazia e forse finanzia il film) il bravo S.Knight intercala con una fitta tessitura dialoghi, silenzi, rumori di fondo, musica. Il tono cresce spasmodicamente, inchioda alla sedia lo spettatore che si fa trascinare in pieno dentro i ragionamenti del protagonista e se ne assume anche il carico emotivo. Spettacolarizzazione della normalità, i dialoghi sono banalmente autentici, ricorrenti, l’immedesimazione in questo prototipo della vita schizofrenica dell’oggi è totale e convincente. Ottima la prova d’attore dell’unico personaggio visibile nel film, Tom Hardy alias Locke, dà non solo il suo volto interessante alla vicenda, ma la sua voce con quelle che sentiamo attraverso il telefono, difficilmente se doppiata restituirà lo stesso calore e la stessa intensità. Locke rimane una riflessione sulla qualità (se così possiamo definirla ancora) della vita di questa epoca, a quali condizionamenti viene sottoposto l’uomo, ai suoi doveri sociali, alla distanza che divide la sua solitudine, la sua unicità, da quei valori che indicano i parametri della felicità e della condivisione di essi, alle verità alle quali il comportamento dell’essere umano si espone suo malgrado. E la macchina intanto va, e sembra non fermarsi mai.


    5° POSIZIONE





    Sotto una pioggia torrenziale, la cinepresa avanza scivolando leggera fra gli alberi che costeggiano il sentiero laterale di un boulevard, accompagnata (e quasi ritmata) dalle suadenti, giocose note di una musica che ha il tocco inconfondibile di Alexandre Desplat…. poi scarta verso destra, e mostra la facciata piuttosto fatiscente di un teatro (o meglio “du Theatre”) alla cui insegna corrosa dal tempo e altrettanto scalcinata, manca la H caduta chissà quando e mai ripristinata in loco.
    La cinepresa scende vorticosa verso il basso avvicinandosi lentamente all’edificio, quasi volesse accarezzarlo… davanti a noi l’ingresso, con le sue porte che si spalancano e si fanno “penetrare”… un piccolo movimento delle tende appena superato l’atrio, un sussulto quasi accennato, e si è finalmente dentro la sala ovattata e accogliente come una vagina: è fatta, e il “gioco” di questo ironico e stupefacente “faccia a faccia” fra i due sessi può così iniziare. Comincia infatti quasi subito e si fa immediatamente scoppiettante con le due parti in causa chiaramente dichiarate: il “servo” e il “servitore”.
    Abbiamo solo il tempo di sbirciare il palcoscenico dove giacciono abbandonate le improbabili scenografie di un musical precedentemente rappresentato ispirato a un western come Ombre rosse (e non è un caso, se si considera soprattutto quello che è il titolo francese del capolavoro fordiano, un film che a parte qualche cavalcata, è fatto soprattutto di interni, di fragili e complessi rapporti interpersonali nel dualismo contrapposto “uomo/donna”). Le varie suppellettili, sono sparse ed ammucchiate un po’ dappertutto e fra queste, troneggia quasi imperioso anche un cactus di plastica (che ha a che fare ovviamente col “deserto” di quella messa in scena, ma che qui diventa un evidente, ”spinoso” simbolo fallico in bella mostra).
    Siamo dunque pronti per gustarsi la “corrida”: se Thomas (il regista) solo nella sala vuota sta lamentandosi per l’infruttuosa giornata parlando col telefonino,Vanda è già dietro la tenda ad osservare e sta per irrompere sulla scena, spettinata, fradicia di pioggia e in perenne ritardo anche sull’orario dei provini. I due “contendenti” inizieranno così ben presto a dare fuoco alle proprie polveri in un costante scambio dei ruoli (di per sé inesorabilmente e inequivocabilmente complementari) fra master e slave che è poi quella sottile relazione di reciprocità e interazione costante, in cui, necessariamente, il dominato e il dominante sono ampiamente collaborativi e interscambiabili, una peculiarità che costituisce appunto proprio l’elemento fondante (oserei dire il cardine) di quelle pratiche estreme basate più che sulla forza bruta, sulle capacità mistificatorie e affabulatrici della mente, all’interno delle quali ogni azione deve essere vissuta come un gioco ritualizzato scandito da precise regole, e dove non è mai possibile stabilire con definitiva chiarezza, chi è in effetti che tiene le fila, se la “vittima” o il “carnefice”.

    Con Venere in pelliccia, girato con due soli attori praticamente in un’unica location che pur circoscritta fra quattro mura, la macchina da presa e la scansione delle scene e del montaggio riescono a dilatare rendendola dinamica con sorprendenti, costanti ed accurati movimenti che danno respiro e aria a tutto l’andamento, Polanski rilegge così Masoch a suo modo (che è geniale, e devo dirlo subito) e – come già aveva fatto con la sua precedente opera (Carnage, nella fattispecie) - costringe i suoi due splendidi attori (Mathieu Amalric ed Emmanuelle Seigner) a caricarsi l’intero film sulle proprie spalle spingendoli con eleganza e forza (oltre che una buona dose di perfida ironia) dentro a questa travolgente, emozionante girandola meta-teatrale e meta-cinematografica allo stesso tempo, elegantissima e sontuosamente affascinante.
    Tratta dal testo teatrale di David Ivens (che insieme allo stesso Polanski ha avuto parte attiva anche nel definire la sceneggiatura), grande successo americano del 2010 e a sua volta ispirato all’omonimo romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch pubblicato nel 1870, la pellicola - un film da camera con un congegno a orologeria che non sbaglia un colpo - è un prezioso gioiellino, realizzato con indubbia maestria da un grandissimo della settima arte che anche questa volta si conferma uno straordinario affabulatore che di nuovo ha fatto centro nonostante il limitato budget.
    Si potrebbe obiettare forse che aggiunge poco alla sua poetica (si riprendono infatti molti dei temi che hanno attraversato le sue opere fino dai sui esordi e ci si ritrovano dentro tutte le radici del suo cinema fatto di campi e controcampi, a partire dal suo folgorante esordio con Il coltello nell’acqua, altro suo film con pochissimi personaggi girato en plein air ma nello spazio angusto di una barca) né che costruisce nuove prospettive a un esercizio di stile già portato alle estreme conseguenze proprio con Carnage (anche se qui a me sembra che nel suo straordinario modo di far fotografare gli interni dall’eccellente Pawel Endelman, si possono individuare ancor più specifiche assonanze con ciò che aveva già realizzato – e parlo della forma - ai tempi di Repulsion e Cul-de-sac), ma avrebbe davvero poco senso a mio avviso, e sarebbe come pretendere di trovare l’ago nel pagliaio. Godiamoci allora pienamente l’eccelso risultato, poichè qui ogni sua scelta, ogni inquadratura, è comunque sorretta da una (per me) inedita abilità registica che ha davvero pochi rivali che lo porta a parlare – sia pure in forma traslata – anche di sé con una appassionata sincerità un po’ sorniona e molto coraggiosa che mette in scena (e a fuoco) ossessioni, nevrosi e debolezze, quasi con un sottile piacere ambiguamente disturbante e un poco “sporco” che indubbiamente ha molte connotazioni che riguardano il suo personale (e privato) vissuto di vittima e carnefice. Con una forma che è giusto definire smagliante (e qui mi ripeto) frulla così arte e vita per farne un qualcosa di veramente universale che porta a sviluppare su quel palco non solo le turbinose dinamiche servo-padrone a cui accennavo prima, ma anche e soprattutto l’eterna guerra dei sessi elaborata con andamenti e soluzioni psicologicamente spietate che fanno lentamente lievitare le cose fino a farle diventare una profonda riflessione di e sul genere, ma col valore aggiunto di fonderci dentro tutta la dolorosa sottigliezza che riesce ad esprimere nello scavare e quasi scarnificare le pulsioni umane (e anche le cadute) sviluppate in una lunga e travagliata esistenza come la sua e dove, proprio per questo, Thomas e Vanda si sdoppiano, diventano quattro e più personaggi per rendere chiaro il discorso di un autore che a 80 anni suonati non ha smesso di fare ricerca (nuove forme e nuove sensazioni) e ci regala così alla fine un’opera davvero fra le più illuminate, complesse e stratificate dell’intera sua carriera che presenta alcune dinamiche che richiamano e rimandano al sottovalutato Luna di fiele (e alla fine, qualche diversità strutturale ci si trova anche e riguarda proprio il differente uso della parola: se nella sua precedente fatica infatti veniva stigmatizzata fino a farla diventare uno strumenti conflittuale e divisivo con il suo chiacchiericcio costante e disturbante, in Venere in pelliccia sono alla fine proprio le parole a diventare un “gioco” non solo lessicale, ma anche di ruolo, quelle che permettono insomma a Polanski di fare della sua arte, vita e spettacolo.

    E’ un film semplice e veloce, avere due soli personaggi non è stato un problema: la sfida è stata semmai quella di non annoiare il pubblico con un numero così ristretto di “caratteri” da rappresentare e un solo ambiente da filmare: per quel che mi riguarda, l’ho trovato eccitante come una scommessa. (Roman Polanski)

    Polanski non rinuncia alla sua abituale ironia nemmeno nelle sue dichiarazioni “a latere” del film quando, rispondendo alla domanda di come era riuscito a gestire il rapporto con gli attori, dichiara: il rapporto con gli attori? Li ho dominati, il film parla di questo… sì, li ho anche schiaffeggiati, ma non si sono mai lamentati.
    Scherzi a parte, sono parole queste che molto aiutano a comprendere che nonostante la pesante eredità del testo, il masochismo (inteso come perversione) è stato soprattutto per lui la molla che agita le acque, utilizzato per portare a galla molte altre tematiche, in questo singolar tenzone che non lascia scampo, esemplare e a suo modo esilarante rielaborazione teatral-cinematografica non a caso racchiusa fra due estetizzanti carrellate a inizio e fine film che circoscrivono ed esaltano una vitalità artistica addirittura imbarazzante – per gli altri s’intende, non certo per lui.
    Se all’origine, come già in Carnage,c’è una commedia (io preferirei definirla un dramma), frutto come si è già visto della intensa scrittura di David Ivens, Polanski esattamente come aveva già fatto con Ariel Dorfman (La morte e la fanciulla) e con Il dio della carneficina (Carnage) di Yasmina Reza, ci lavora di fino e “scombina” molte cose: se all’apparenza sembra rispettarne perfettamente l’andamento (nel senso che non lo elude, non lo manda all’aria e nemmeno lo stravolge) riesce con pochissimi accorgimenti aggiustativi, a crearne dentro , un ipertesto che ha una nuova “diversa” consistenza che lo rende completamente malleabile sotto le sue mani suo, o meglio, gli consente di tradurlo in un elaborato perfetto per la propria visione autoriale, grazie a un gioco di specchi e di riflessioni sulle identità e i generi, capace di “sballare” le coordinate ontologiche (riferite alla struttura dei personaggi) e di farle diventare decisamente molto più stratificate e meno conformi del testo di partenza.
    Non a caso, il suo esplicito alter ego (e quanto si somigliano Mathieu Amalric e il giovane Polanski lo potrete tutti verificare di persona) finirà per essere annichilito non solo (e non tanto) dall’impetuosa Vanda (non va mai dimenticato al riguardo che la Seigner è sua moglie proprio nella vita) ma anche (e soprattutto) dalla sua stessa molteplice identità: regista, attore, drammaturgo, personaggio, e quanto altro ancora?
    A sottolineare non solo l’arguzia, ma anche il bon ton, e soprattutto il divertissement (questo davvero “sadico”) è la stessa Vanda (ribadisco: sua moglie) che a un certo punto appella il suo alter-ego con il termine di “autore” e sembra così volersi farei simpaticamente beffe della sua dichiarata“autorialità”.
    Come qualcuno ha già scritto prima di me, ci vuole davvero non solo un immenso coraggio intellettuale unito a una massiccia dose di autoironia nel porsi in una posizione così scopertamente “criticamente ”vulnerabile, ma anche e soprattutto una sconfinata fede nel potere salvifico (anche assolutorio) del cinema e dell’arte tutta.
    Siamo dunque di fronte a un Polanski incredibilmente tagliente che non teme di spiattellare davanti e dietro la macchina da presa, le idiosincrasie e le ossessioni, le manipolazione e il desiderio, la fragile vanità del demiurgo e i giochi di ruolo combinati con la psicanalisi, la claustrofobia artistica e quella esistenziale, il tutto mischiati insieme dentro a un calderone ribollente zeppo di rimandi sadomasochisti che lui rimesta a dovere alleggeriti però da un tocco autoriale leggero e disincantato che spinge il tutto verso l’alto e lo fa lievitare.
    Due personaggi soltanto all’appello, dunque, ma che si moltiplicano miracolosamente sotto i nostri occhi (che diventano persino – come credo di aver già fatto ben comprendere - anche in una emozionante “traslazione familiare”): rendendo Amalric incredibilmente somigliante a se stesso sia pure in una precedente età, facendolo affiancare da sua moglie Emmanuelle Seigner, Polanski crea infatti una sovraesposizione capace di far diventare questo gioco al massacro tra i due sessi, di cui è pervaso il testo, ancor più intrigante, stratificato e ambiguo. Chi è in scena? la donna o l’attrice, l’uomo o il regista? i personaggi di oggi o quelli del passato immortalati dal romanzo? Perché qui dentro, nell’infinito scambio rifrattivo, Amalric/Polanski e la Seigner, finiscono per assumere di volta in volta il senso e le forme indotte non solo di Thomas (il regista della finzione) e di Vanda ma anche di Severin e di Wanda (quella della doppia W del libro di Masoch). Quasi una seduta autoanalitica insomma in cui “l’autore ritrova e rinnova la natura dell’estasi creativa” (Claudio Bartolini)

    Sono cresciuto a teatro, a 14 anni ero già protagonista sul palco in Polonia; in questo caso sono passato dalla stanza prove della pièce al palcoscenico, con un set ricostruito che mi ha concesso grande possibilità di movimento, azzerando la claustrofobia di uno spazio chiuso. (Roman Polanski)

    Il lavoro di adattamento ha giustamente prodotto qualche taglio al testo, ma soprattutto a fare la differenza, è stata la decisione di spostare il luogo dell’azione dalla saletta delle prove prevista dall’originale, a un teatro vero e proprio, sia pure ricostruito in studio: la scelta consente di “allargare” rendendo meno statici (al resto ci pensa l’abilità del regista) i movimento di macchina e azzerare così l’effetto claustrofobico tipico di tanto teatro al cinema , anche se in questo caso non ce ne sarebbe stato un eccessivo bisogno, poichèé i colpi di scena, le emozioni, i continui ribaltamenti nei rapporti di dominio, rendono davvero impossibile annoiarsi in questo scontro/incontro tra i sessi dove l’attrazione erotica è un’arma in più, peraltro sfoderata con chirurgica precisione: e l’onnipotente lo colpì. E lo consegnò nelle mani di una donna (epigrafe del libro di Leopold von Sacher-Masoch che è la sintesi perfetta del grande lavoro compiuto da Polanski con i i due personaggi che come già si è detto, si moltiplicano miracolosamente sotto i nostri occhi, diventano infiniti perché sono davvero il prototipo di ogni uomo e di ogni donna.

    Parigi, un teatro: il regista Thomas (Mathieu Amalric) è esausto e si lamenta al termine di un’intera giornata buttata via a provinare tante attrici talmente cagne da non poter avere una pur minima possibilità di essere capaci di incarnare Wanda nella pièce La Vénus à la forrure e rendere realistico quel ruolo di donna elegante e aristocratica che si deve imporre fin dal primo istante in cui appare in scena allo spettatore e deve sedurre l’interlocutore fino a farne il suo schiavo. O forse è Thomas ad essere nevrotico, o piuttosto talmente misogino da essere per definizione “incontentabile”? Non ci è dato di saperlo perché i provini non ci vengono mostrati.
    Ma ecco arrivare all’improvviso e fuori tempo massimo un’ultima aspirante al ruolo che si chiama Vanda per davvero (anche senza la doppia v), o almeno così dice di chiamarsi: aggressiva, fradicia, scarmigliata e apparentemente svitata, volgare e sboccata come una squillo di bassa lega, sull’orlo di una crisi isterica.
    Thomas è stanco, ha fame, non vede l’ora di andare a casa, vorrebbe solo liquidarla al più presto, ma lei si impone, tira fuori dal borsone un abito ottocentesco, lo indossa, e… zac!, diventa Wanda e con una forza indotta e non solo erotica, finirà ben presto per travolgere Thomas, mentre la finzione scivola lentamente via e inquietanti sprazzi di verità entrano in scena in un finale straordinario che ci rimanda (ma non voglio raccontare di più) alla trasformazione gender de L’inquilino del 3° pianoun altro capolavoro ingiustamente (e colpevolmente) poco apprezzato alla sua uscita, ma al quale il tempo ha poi reso ampia giustizia.

     
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